Ho parlato più volte (e lo hanno fatto anche diversə mieə colleghə) dei determinanti sociali della salute mentale, ovvero quei fattori che, interagendo tra loro, influenzano i livelli individuali e collettivi di salute mentale e di benessere.
In altre parole, fare parte di un gruppo razzializzato espone a maggiori rischi per la propria salute.
In Italia si fa fatica a parlare di razzismo e della nostra responsabilità coloniale, figuriamoci del suo impatto sulla salute mentale.
Dal processo infinito per ottenere la cittadinanza, spesso negata, anche se sei natə in questo paese, fino alla discriminazione scolastica e sul lavoro, per arrivare alla violenza razzista, già questo basterebbe per farci svegliare e renderci conto che non possiamo più essere complicə di questo scempio ai danni delle persone cui condividiamo la vita nel nostro paese. Ma non finisce qui.
Essere una persona razzializzata in Italia significa affrontare quotidianamente Stress Cronico (vedi Meyer e Minority Stress), Microaggressioni (vedi Chester e Sue), traumatizzazione (vedi Van Der Kolk), Gaslighting, TonePolicing, esposizione a Shaming cronico (vergogna). Aggiungiamoci poi il resto di discriminazioni a cui si è espostə se si è, per esempio, anche disabili, neuroatipicə, grassə, LGBTIAQP+.
Moltissime persone razzializzate (pubblicamente e in privato) hanno anche espresso il dolore di essersi rivoltə a professionistə della salute mentale in Italia e di essere statə completamente invalidatə nel loro vissuto di sofferenza, finendo per essere violatə da chi, invece, avrebbe dovuto proteggerlə (vedi il libro “Future” edito da Eeffequ Edizioni). La nostra categoria non può più permettersi di cavarsela con un debole “ma io non sono razzista”.
Il razzismo è un problema di salute pubblica (lo stanno dicendo moltə attivistə e lo ribadisco anche come professionista sanitaria) e anche come tale va trattato.
Io non ho la soluzione perché sono anche io parte del problema, ma credo che dobbiamo almeno cominciare a parlarne.