La bufera di molestie e violenze sessuali che ha investito il mondo partendo da Hollywood ha tirato fuori il meglio e il peggio di tutti noi. I social hanno restituito il ritratto di una umanità che troppo spesso accusa la vittima e salvaguardia il carnefice. Lo stesso grottesco teatrino processuale per i due Carabinieri accusati dello stupro delle due turiste americane ha riportato pesantemente alla ribalta il fatto che la nostra società ancora non è pronta a combattere le violenze, ancora incolpa le donne.
E purtroppo, ogni pezzetto di “victim blaming” che si è sparso nell’etere in questo periodo altro non fa che danneggiare ulteriormente le vittime, che continua troppo spesso a restare chiuse nel proprio silenzio, costrette a gestire da sole il trauma.
Navigando nel web ho trovato questa TEDTalk di Inès Hercovich, psicologa sociale, esperta di discriminazioni contro le donne, purtroppo non tradotta in italiano.
Penso che sia un contributo molto importante per spezzare la narrativa che vuole le vittime colpevoli dei crimini che subiscono e pertanto ho pensato di tradurla io stessa, affinché fosse fruibile anche in lingua italiana. Una narrativa che vuole come colpevoli solo dei loschi criminali e come vittime delle donne fragili ed indifese.
“Ci sono circa 5.000 donne qui oggi. TRa noi, 1.250 hanno subito o subiranno un’aggressione sessuale in un qualche momento della loro vita. Una su quattro. Solo il 10% sporgerà denuncia. E l’altro 90% cercherà rifugio nel silenzio – per metà di loro, poiché la violenza coinvolge un membro della famiglia o qualcuno che conoscono, sarà ancora più difficile gestirla e parlarne. L’altra metà non ne parla perché teme che non sarà creduta. E ha ragione – perché non ci crediamo.
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Oggi voglio condividere con voi il motivo per cui non crediamo a queste donne. Non crediamo perché quando una donna racconta ciò che le è successo, ci racconta cosa che non possiamo immaginare, cose che ci disturbano, cose che non ci aspettiamo di sentire, cose che ci shockano. Ci aspettiamo di sentire storie come questa: ‘ragazza stuprata vicino ai binari di Mitre Railroad. E’ successo a mezzanotte mentre tornava a casa. Ha raccontato che qualcuno l’ha aggredita alle spalle, le ha detto di non gridare che aveva una pistola, e che non doveva muoversi. L’ha stuprata e poi è fuggito’. Quando sentiamo una storia di questo tipo, la visualizziamo immediatamente: lo stupratore, un uomo probabilmente povero e losco. E la vittima, una donna giovane e attraente. L’immagine dura al massimo 10 o 20 secondi, è scura e bidimensionale; non c’è movimento, nessun suono; ed è come se non ci fossero davvero delle persone coinvolte. Ma quando una donna racconta la sua storia, non bastano 10 o 20 secondi.
Quella che segue è la testimonianza di una donna che chiamerò ‘Ana’. E’ una delle 85 donne che ho intervistato durante la mia ricerca sulle aggressioni sessuali. Ana mi disse: ‘ero andata con le mie colleghe di lavoro al solito pub in cui andiamo sempre. Abbiamo conosciuto dei ragazzi, e io mi sono ritrovata a parlare con uno di loro; abbiamo parlato tanto. Intorno alle 4 di mattina, ho detto alle mie amiche che era ora di andare a casa. Loro volevano restare. Così il ragazzo mi ha chiesto dove vivevo e che se volevo, mi avrebbe accompagnata lui in auto. Dissi di sì, e lasciammo il pub.
Ad un semaforo, mi disse che gli piacevo e mi toccò una gamba. Non mi piacciono i ragazzi che utilizzano questi approcci, ma era stato affettuoso tutta la serata. Pensai <non devo essere così paranoica. Che succede se gli dico qualcosa, ma lui non ci stava provando e poi lo offendo?> Al punto in cui avrebbe dovuto svoltare, proseguì dritto. Pensai che si fosse sbagliato e gli dissi <avresti dovuto svoltare lì>. Ma qualcosa mi sembrava strano. Ripensandoci, mi domando <perché non ho fatto attenzione a ciò che sentivo in quel momento?>.
Quando si fermò vicino all’autostrada, mi spaventai. Ma mi disse di rilassarmi che gli piacevo, e che nulla sarebbe successo a meno che io lo volessi. Era gentile. Non dissi nulla perché avevo paura che si arrabbiasse e che le cose sarebbero peggiorate. Pensavo che potesse avere una pistola nel vano portaoggetti. Improvvisamente, mi saltò addosso e cercò di baciarmi. Dissi di no. Volevo spingerlo via, ma mi teneva la braccia. Quando riuscii a divincolarmi, cercai di aprire la portiera, ma era bloccata. E anche se fossi riuscita ad uscire, dove sarei andata?.
Gli dissi che non era il tipo di ragazza che doveva fare tutto questo per stare con una ragazza, che piaceva anche a me, ma non in quel modo. Cercai di calmarlo. Dissi cose carine su di lui. Gli parlai come se fossi la sua sorella maggiore. Improvvisamente mi coprì la bocca con una mano e con l’altra mano si slacciò la cintura. Pensai che avrebbe uccisa, strangolata. Non mi sono mai sentita così sola, come se fossi stata rapita. Gli chiedi di finire in fretta e poi di portarmi a casa.’
Quando sentiamo storie di questo tipo, non al notiziario o da qualcuno come me, che sta presentando da un palco di questo tipo – quando ascoltiamo una storia come questa da qualcuno che conosciamo che si fida di noi nel raccontarci ciò che è successo, dobbiamo ascoltare. E sentiremo cose che non saremo capaci di comprendere – o accettare. E poi arriveranno i dubbi e i sospetti. E questo ci farà sentire molto male e in colpa.
E quindi per proteggerci dal disagio, abbiamo una opzione. Alziamo il volume in tutte quelle parti della storia che ci aspettavamo di sentire: una pistola nel vano portaoggetti, le porte chiuse, la zona isolata. E abbassiamo il volume di tutte quelle parti della storia non ci aspettavamo di sentire e che non vogliamo sentire; come quando lei ha confessato che anche lui le piaceva, o quando ci ha raccontato che gli ha parlato come una sorella, o che gli ha chiesto di portarla a casa.
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Perché facciamo tutto questo? Per poterle credere; per sentirci sicur* che lei sia davvero una vittima. Io la chiamo ‘vittimizzazione della vittima’. ‘Vittimizzazione’ perché per poterla credere innocente, che è una vittima, dobbiamo pensarla impotente, paralizzata, muta. Ma c’è un altro modo per evitare il disagio. Ed è l’esatto opposto: alziamo il volume su tutte le cose che non ci aspettavamo di sentire, come ‘Gli ho parlato con gentilezza‘, ‘gli ho chiesto di portarmi a casa‘, ‘gli ho chiesto di finire velocemente‘, e abbassiamo il volume sulle cose che ci aspettavamo di sentire: la pistola nel vano porta oggetti, il luogo isolato. Perché facciamo tutto questo? Per poter mantenere vivi i nostri dubbi senza che ci mettano a disagio.
Io questo lo chiamo ‘incolpare la vittima’. Queste argomentazioni che servono sia per incolpare che per vittimizzare, ce le abbiamo tutt* nella testa, a disposizione – inclusi le vittime e gli aggressori. Così tanto che quando Ana mi incontrò, mi disse che non era sicura che la sua testimonianza sarebbe stata utile, perché non era sicura che ciò che le era successo potesse essere categorizzato come stupro. Ana credeva, come molt* di noi, che lo stupro fosse più come una rapina a mano armata – un atto violento che dura 4 o 5 minuti – e non una serata passata a parlare piacevolmente con un ragazzo gentile, che dura tutta la notte e finisce con un rapimento. Quando ebbe paura di essere uccisa, ebbe paura di finire con delle cicatrici, e diede il suo corpo per e evitarlo. E fu allora che si rese conto che lo stupro è qualcosa di diverso.
Ana non ha mai parlato con nessuno della sua storia. Avrebbe potuto rivolgersi alla sua famiglia, ma non l’ha fatto. Non l’ha fatto perché aveva paura. Aveva paura che la persona che avrebbe scelto per raccontare la sua storia avrebbe avuto la nostra stessa reazione: che avrebbe avuto dei dubbi, sospetti, le stesse domande che ci poniamo tutti quando sentiamo storie di questo tipo. E se questo fosse successo, avrebbe peggiorato le cose, sarebbe stato forse peggiore lo stupro stesso. Avrebbe potuto parlare con un’amica o con una sorella. E con il suo fidanzato sarebbe stato estremamente difficile: il minimo indizio di dubbio sul suo volto o nella sua voce sarebbe stato devastante per lei e avrebbe probabilmente portato alla fine della loro relazione. Ana sceglie il silenzio perché in fondo sa che nessuno – nessuno di noi, non la sua famiglia o i terapeuti, né tanto meno la polizia o i giudici – ha la volontà di ascoltare ciò che Ana face davvero in quel momento.
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Prima di tutto, Ana disse ‘No’. Quando vide che il suo ‘no’ non dette risultati, cercò di parlargli con gentilezza. Cercò di non provocare la sua violenza o dargli idee. Gli parlò come se tutto ciò che stava accadendo fosse normale, in modo che lui non pensasse che lei lo avrebbe poi denunciato.
Ora mi chiedo e vi domando: tutte quelle cose che lei ha fatto – non sono considerati modo di resistere? No. Per tutt* o molt* di noi, non lo sono, probabilmente perché non si configura come ‘resistenza’ agli occhi della legge. In molti paesi, la legge richiede che sia la vittima a provare la propria innocenza [per fortuna in Italia non è più così] – mostrano segni sul corpo a riprova di essere difesa vigorosamente e con continuità. Vi posso assicurare che nella maggior parte dei casi che arrivano a processo non ci sono mai abbastanza segni. Ho ascoltato molte storie di donne. E non ho mai sentito nessuna di loro parlare di se stesse come se fosse state ridotte ad un oggetto inanimato, totalmente soggiogato alla volontà altrui. Piuttosto sembrano sorprese anche un po’ orgoglioso di ricordare quanto fossero lucide in quel momento, a quanta attenzione avevano per ogni dettaglio, come se questo permettesse loro di sentire di avere ancora un po’ di controllo su quello che stava accadendo.
Poi mi sono resa conto, ovviamente – quello che le donne fanno in questi casi è negoziare. Il sesso per la loro vita. Chiedono all’aggressore di finire in fretta, così tutto sarà finito il prima possibile e al minore costo. C’è penetrazione, perché che ci crediate o meno, la penetrazione è qualcosa che permette di essere il più possibile lontane da uno scenario emotivo o sessuale. La penetrazione diventa meno dolorosa di baci, carezze e parole gentili.
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