Primavera ed estate sono immancabilmente un momento triggerante per una serie di questioni collegate all’immagine corporea.
La Fat Talk e la Diet Talk sembrano onnipresenti e viviamo in un contesto culturale in cui non si è ancora compreso che non esiste situazione in cui sia ammissibile commentare i corpi altrui. I discorsi pubblici sul tema, tra l’altro, spesso e volentieri escludono le narrazioni di chi subisce discriminazioni sistemiche collegate al corpo, ovvero le persone grasse, disabili, razzializzate, transgender, per le quali, a volte, andare in spiaggia non è nemmeno una opzione possibile.
E succede che mi vengano spesso chiesti consigli generali su come affrontare questo periodo. Vado in spiaggia? Non ci vado? Mi copro? Mi scopro? Ci vado ma studio nei minimi dettagli come evitare di incontrare gli stalker della corporeità?
Il punto è che non esistono consigli generali, ogni persona ha la sua storia e vive all’intersezione di diverse dinamiche di privilegio ed oppressione. Le persone che provano imbarazzo o vergogna nell’esporre il proprio corpo in costume da bagno spesso rischiano di essere colpevolizzate anche proprio per quell’imbarazzo, restando intrappolate in un doppio legame da cui è molto difficile uscire.
C’è chi decide di proseguire con diete restrittive. C’è chi sceglie la strada dello studio della grassofobia e dell’abilismo, c’è chi frequenta gruppi di autocoscienza, c’è chi cerca un supporto psicologico, c’è chi frequenta luoghi che utilizzano un approccio inclusivo a qualsiasi tipo di corporeità. C’è chi sceglie di non spogliarsi.
Non è mia prerogativa dire alle persone come comportarsi in queste circostanze a meno che non mi chiedano un aiuto professionale individuale e in quel caso si valuta insieme la strada più elaborativa per la propria autodeterminazione.
Dovremmo anche smettere di chiedere alle persone marginalizzate di imparare a difendersi, e come società assumerci la responsabilità di non mettere le persone nelle condizioni di doverlo fare costantemente.