Il mio primo “non ti credo” risale a quando avevo 7 anni. A 4 mi avevano diagnosticato una importante asma da sforzo: in pratica quando facevo qualsiasi attività un po’ più intensa del camminare, andavo in crisi asmatica, il mio corpo dimenticava come respirare. Così, ero d’accordo con il mio abituale istruttore di nuoto che se arrivavo a metà vasca e non riuscivo più a respirare, potevo attaccarmi al galleggiante della corsia e tirarmi a mano fino al bordo.
Un giorno arrivò un istruttore nuovo. Mi vide attaccarmi al galleggiante e appena arrivai a bordo vasca, mi urlò contro. Io risposi che soffrivo di asma e gli accordi erano quelli.
“Non ti credo! Sei solo pigra! Nuota!”
All’epoca non contestavo l’autorità. Così, nuotai, annaspai, respirai acqua. Mia madre se ne accorse e, mentre pregavo che il mio corpo si ricordasse come si respirava, lo aggredì verbalmente in modalità leonessa inferocita. E da allora non si azzardò mai più a urlarmi “non ti credo”.
A volte è il “massì, basta che ti calmi”, come replica al fatto che abbiamo confessato che non riusciamo a prendere i mezzi pubblici a causa dell’ansia.
E’ il “eh ma certo anche a me succede così, ma io mica lamento”, detto quando cerchi di fare capire che non riesci a fare una banale attività quotidiana a causa del dolore.
E’ il “ma non sembra che tu stia male”, quando hai appena confidato che ogni giorno è diventato un macigno enorme da muovere.
Il “non ti credo” nasce per tanti motivi diversi.
Per usare l’empatia è necessario connetterci con quella parte di noi che riconosce l’emozione che l’altra persona sta esprimendo, e se si tratta di sentire la sofferenza, la maggior parte di noi si spaventa.