Più volte in questo blog abbiamo parlato di endometriosi. Non ho mai nascosto di soffrirne e di interessarmi della diffusione di corrette informazioni su questa malattia cronica che colpisce 3 milioni di persone in Italia e 170 milioni nel mondo.
E’ una malattia subdola, che mette davvero alla prova chi ne soffre e i suoi cari. Spesso arriva accompagnata con altre diagnosi croniche (come per esempio, problematiche alla tiroide o fibromialgia). Anche se l’endometriosi è ancora oggetto di stereotipi, falsi miti e scarso riconoscimento sociale, le donne che ne soffrono in tutto il mondo hanno fatto quadrato.
Si sono unite creando associazioni, gruppi di aiuto-mutuo-aiuto online e dal vivo. Si è creata una forte identità con i nomi di endine, endogirls, endosisters … tutti modi per sentirsi unite nella lotta quotidiana contro questa malattia.
Mi sono resa, però, conto (purtroppo solo recentemente) che queste parole che io stessa utilizzo, il continuo riferimento all’universo femminile, escludono e cancellano violentemente le persone che sono state (per esempio) assegnate femmine alla nascita, ma che non si identificano come donne.
Parlo, per esempio, degli uomini transgender o delle persone non binary o queer.
Andiamo con ordine.
Con questo termine “ombrello” si intendono le persone la cui espressione di genere è diversa dal sesso biologico di nascita.
Genderqueer o queer deriva dalla parola inglese gender, che significa genere, e queer che letteralmenete significa “strano, bizzarro”. Nel corso degli anni, la parola queer è stata utilizzata in modo offensivo verso le persone che non si adattavano alle “tradizionali” norme di genere. Negli ultimi anni, la parola è stata ripresa da attivistx per i diritti LGBTIAQP+ per riaffermare, invece, il diritto a non doversi per forza conformare a norme di genere binarie (maschile vs. femminile)
Sono sempre esistite, ne parliamo ora semplicemente a risultato di discussioni oneste e scientificamente avanzate che hanno finalmente cominciato a parlare dell’identità di genere umana non solo come una questione di rosa/azzurro, ma prendendo in considerazione tutti i complessi fattori che contribuiscono a formarla e che danno vita ad un arcobaleno di espressioni.
Vorrei condividere la traduzione di alcuni brani tratti dall’articolo “Endometriosis and Gender Nonconformity” scritto da Ashley R.T. Yergens per il blog di The Huffington Post.
“Esiste una popolazione di persone transgender e persone che non si conformano ai generi binari che affrontano l’endometriosi quotidianamente. Eppure, le nostre esperienze di questa malattia non sono oggetto di ricerca né vengono documentate. La nostra cancellazione dalla comunità dell’endometriosi ci rende praticamente impossibile richiedere trattamenti medici appropriati e accedere a sistemi di supporto psicologico senza dover costantemente fare un “coming out”, spiegare le nostre identità di genere, e giustificare le nostre esperienze di dolore pelvico.
Quando entro nella clinica chiamata Downtown Women OB/GYN (clinica ginecologica femminile), mi sento unx impostore, come se usurpassi spazio, come se imponessi me stessa su una femminilità autentica. Eppure, faccio una “x” sul quadratino “femmina” con un sorriso fuori posto.”
“Durante la mia fase diagnostica – prosegue Ashley – ho tradito la mia identità di genere per paura. Ero così spaventat* di vedermi negato l’accesso a cure e trattamenti appropriati. Come risultato, sono finit* per assumere un forte contraccettivo che ha aumentato sensibilmente la mia taglia di reggiseno, lasciandomi con un corpo da cui mi sento sconness* come non mai”.
Diventa un problema quando mettiamo in relazione il genere con qualsiasi malattia (per esempio, cancro al seno, disturbi alimentari, malattie del cuore). Le malattie non conoscono le complessità del genere e dell’etnicità. E’ colpa nostra se abbiamo soggiogato delle condizioni mediche alle costruzioni sociali di oppressione, potere e controllo.
Come società, è nostra responsabilità essere consapevoli di quando siamo complici di queste costruzioni sociali. E sì, è difficile dare la scintilla al cambiamento sociale quanto questa malattia invalidante di cui soffrono “le donne” è già essa stessa periferica all’interesse pubblico. Tuttavia voglio credere che sia più difficile lasciare che le persone queer siano ancor più invisibili in questo gruppo, sia che questa invisibilità sia intenzionale o che non lo sia.