Estate 2022. Sto lavorando al corso in home study di Pink Therapy sull’Assessualità tenuto da Jo Russel. E mi imbatto in questa definizione di Ingiustizia epistemica di Miranda Fricker
“Ingiustizia che oscura la comprensione collettiva di una parte significativa della propria esperienza sociale a causa di un pregiudizio strutturale”
(la traduzione è mia, chiedo venia a chi si occupa professionalmente di traduzione e adattamento).
La definizione in quel contesto si riferisce al fatto che molte persone sullo spettro dell’asessualità non hanno idea di esserlo perché viviamo una società afobica e eteronormata che invisibilizza e patologizza l’asessualità, rubando alle persone asessuali una parte della loro identità, facendole sentire sbagliate, esponendole al rischio di traumatizzazione e violenza sessuale e impedendo loro di agire il proprio consenso in maniera entusiasta e autodeterminata.
Quante altre cose sono oggetto di ingiustizia epistemica? Tutto quello che devia dalla norma standardizzata, tutto quello che viene patologizzato, “alterizzato” (considerato altro da), marginalizzato.
Mi arrabbio per quante volte mi rendo conto di essere stata anche io oggetto di ingiustizia epistemica. Mi arrabbio quando vedo pazienti oggetto di ingiustizia epistemica. Mi sento in colpa e mi vergogno ripensando alle volte in cui ho contribuito a mantenere l’ingiustizia epistemica in quanto professionista sanitaria.
Ogni volta che qualcunə alza la sua voce per parlare della propria esperienza, ogni volta che qualcunə dà un nuovo nome ad una esperienza umana, l’ingiustizia epistemica perde la presa. E’ un lavoro che richiede di riporre il proprio ego e mettersi in ascolto e darsi la possibilità di rimboccarsi le maniche e ricominciare domani.
Grazie a chi lo fa tutti i sacrosanti giorni.