Questo è un post sugli stereotipi di genere e su come ritengo che siano pesantemente presenti nella nostra vita di tutti i giorni, ma arriverò al punto facendo prima una piccola deviazione.
Non è una novità per chi mi conosce che, da marzo, è arrivato un cucciolo in casa. E’ un maschio di Jack Russell che ormai ha quasi dieci mesi. Fortunatamente per noi, è un cagnolino dolcissimo e coccolone, che ama gli altri in maniera indistinta: neonati, anziani, bambini, adolescenti, adulti, cani e gatti. Lo definisco anche un Jack Russell pacifista, infatti, evita sempre il conflitto con gli altri, e si avvicina alle persone scodinzolando esageratamente con lo sguardo, appunto, da cucciolo. Nove volte su dieci, la persona che si ferma a coccolarlo pensa che si tratti di una femmina. Quando rivelo che invece è un maschio, generalmente si precipita subito a giustificarsi (come se la cosa potesse offendermi), dicendo che il cane ha dei “comportamenti femminili”.
Il tutto generalmente finisce con una risata. Ma è da qualche mese che la cosa mi fa riflettere. Un fatto apparentemente sciocco e senza conseguenza, mi ha però fatto pensare a come gli stereotipi di genere siano così radicati nel nostro modo di leggere il mondo, che nemmeno più ce ne accorgiamo quando li usiamo. E arriviamo addirittura ad attribuirli ad un animale da compagnia a cui non importa proprio nulla se gli facciamo indossare una pettorina rosa o una azzurra.
Qualche tempo fa, scrivevo di un argomento simile in un post da titolo “Azzurro o rosa? La segregazione di genere nei giocattoli“ per il blog L’Insolente Costruttivista della Società Costruttivista Italiana. In quell’articolo prendevo spunto dalla segregazione di genere nei giocattoli, e di come questa possa danneggiare i bambini. Mi domandavo:
Ma che messaggio stiamo mandando esattamente ai nostri bambini? E quali sono le conseguenze di questa apparentemente innocente divisione? Nel 2011 nel Regno Unito la neuropsichiatra Laura Nelson ha promosso una campagna affinché i negozi della catena Hamley (molto popolare oltremanica), togliessero dalle proprie corsie la divisione tra maschi e femmine e si limitasse a mantenere una segnaletica che desse indicazioni solo sui diversi tipi di giocattoli presenti. La campagna ha avuto successo ed ora altri negozi stanno continuando su questa strada.
E la segregazione di genere non è solo nei giocattoli: è nei vestiti, negli oggetti per la scuola, nei programmi tv. Mi viene in mente la pubblicità di un prodotto per lattanti: la bimba viene rappresentata come una futura ballerina, il bimbo come uno scienziato o uno scalatore. Sono messaggi innocui? Non proprio.
Fin da prima di nascere, dal momento in cui i genitori scoprono il sesso del proprio bambino, gli/le si applicano una serie di aspettative. La bambina sarà dolce e gentile, le piaceranno il rosa e lilla, giocherà con le bambole. Il bambino sarà discolo e rumoroso, vestirà di blu e di verde e amerà i motori. In tutto questo non c’è niente di male. Non c’è nulla di sbagliato se una ragazzina vuole una cameretta tutta rosa e glitter, o se un bambino resta incantato davanti ad una Maserati. Il problema è che spesso queste caratteristiche sono del tipo “nient’altro che …”: se sei un maschio non puoi essere nient’altro che forte, sicuro, protettivo, razionale. E se quel bambino volesse essere anche qualcos’altro?
Nel già citato articolo scrivevo:
I giocattoli e gli esperimenti che i bambini fanno in tenera età sono fondamentali per la costruzione della propria identità, e non solo di genere e sessuale. E’ davvero sensato per la nostra società insegnare a metà della popolazione che fare un certo tipo di attività, amare un certo tipo di cose non è adatto a loro, e che se decideranno in futuro di farlo andranno incontro a pregiudizi e ridicolizzazione?
Si tratta di un argomento complesso, anche perché non è solo sociale e culturale, deborda anche nella vita famigliare e nelle decisioni che i genitori prendono per i propri figli. E’ anche vero, però, che all’inizio del ventesimo secolo, il rosa era un colore maschile, mentre le bambine vestivano di azzurro. Questo perché ai due colori erano attribuiti significati condivisi diametralmente opposti a quelli odierni (a questo link un interessante articolo sull’argomento dello Smithsonian).
Utilizzare le categorie e gli stereotipi, ci aiuta a dare senso al mondo meravigliosamente complesso in cui viviamo. Sono utili, fino al punto in cui non diventano delle prigioni, e ci limitano invece di aiutarci. Sempre più studi dimostrano, infatti, che il conflitto azzurro vs. rosa, danneggia non solo le persone di sesso femminile, ma anche i maschi, perché pone dei vincoli culturali alle infinite possibilità di esplorazione e sviluppo che ogni essere umano possiede.
Non credo di esagerare, se propongo che una parte di responsabilità nella genesi di omofobia e dei recenti crimini d’odio verso, per esempio, le persone transessuali (o che si identificano in qualsiasi altra identità di genere o sessuale che osi varcare i confini considerati più “tradizionali”) poggia sugli stereotipi di genere.
Per tornare al mio cucciolo, a lui non importa se la sua ciotola è azzurra. Da noi desidera solo affetto, rispetto e un rifugio sicuro quando è spaventato. E non è poi forse quello che desideriamo anche noi esseri umani?