Marzo è il mese dedicato alla consapevolezza dell’Endometriosi. In particolare, la prossima settimana, in cui cade la celebrazione dell’8 Marzo, è la settimana Europea dedicata a questa silenziosa malattia femminile che colpisce almeno 3 milioni di donne in Italia.
In questo sito abbiamo già parlato più volte di endometriosi, perché io stessa ne soffro, cosa che ha catalizzato il mio interesse ad avvicinarmi all’Associazione Italiana Endometriosi Onlus, con cui in qualità di volontaria mi occupo di diverse iniziative e della gestione di gruppi di auto-aiuto a Rovigo per chi soffre di questa patologia (per maggiori informazioni potete consultare il sito dell’Associazione www.endoassoc.it).
→per maggior informazioni sull’endometriosi, rimando alla pagina di spiegazione di AIE Onlus
L’occasione del mese della consapevolezza è naturalmente un’ottima opportunità per parlare nello specifico di endometriosi ma credo anche che molti degli argomenti che toccheremo in questo post si possano applicare anche a chi soffre di altre malattie croniche, specialmente se si tratta di patologie poco conosciute e sulle quali la maggior parte della gente ha poche informazioni o informazioni stereotipate.
Partiamo intanto da cercare di capire che cosa significhi convivere con una malattia cronica:
Una malattia cronica è una malattia che presenta sintomi costanti nel tempo ed i cui effetti oramai si sono stabilizzati portando solo lievi miglioramenti e nessuna cura risolutiva.
[fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Malattia_cronica]
In questa definizione c’è già un elemento molto importante per cercare di avvicinarsi ad una maggiore comprensione di chi fa questa esperienza: dalla malattia cronica non si guarisce. Si può gestirla, ci possono essere dei momenti in cui si sta meglio, e altri in cui sono dei peggioramenti, ma il punto focale è che è qualcosa che fa parte della nostra vita.
Tutte le ultime ricerche in campo medico, suggeriscono che mente e corpo non sono due entità separate e sembra che sia il sistema immunitario a mediarne la relazione. Di conseguenza, la medicina è sempre più concorde nel sottolineare l’importanza dell’influenza del benessere psicologico su quello fisico e viceversa.
Non è difficile immaginare che gestire per tutta la vita una malattia cronica con i suoi momenti buoni e quelli cattivi, i controlli periodici, le terapie, gli effetti sulla propria vita personale e lavorativa, eventuali interventi chirurgici, richieda uno sforzo psicologico notevole, e la necessità di sviluppare sia buone capacità di resilienza sia di poter beneficiare di periodi di sostegno, quando anche il migliore atteggiamento non può fare fronte a determinati tipi di difficoltà.
Nelle mia esperienza personale con questa malattia e quella maturata insieme al gruppo di auto-aiuto ho notato che in molti casi le donne che ne soffrono sono poco disposte ad intraprendere un percorso psicologico (che sia individuale con un professionista piuttosto che di gruppo con altre donne che soffrono della stessa patologia).
Personalmente, ritengo che questo fenomeno sia del tutto comprensibile, ma che sia anche necessario scardinarne le dinamiche.
Le donne che soffrono di endometriosi attendono una media di 10 anni per avere una diagnosi. Molte di loro (e mi ci metto anche io nel gruppo), in quel periodo di tempo fanno la spola tra diversi medici (non necessariamente solo ginecologi) per trovare la causa dei propri dolori, spesso invalidanti.
Purtroppo, l’endometriosi è una patologia molto complessa la cui diagnosi deve essere effettuata da un medico specializzato. Questo significa che in molti casi, la patologia non viene individuata dai professionisti sanitari per quella che è. E la causa del dolore riportato da queste donne viene in molto casi attribuito a stress, eccessiva ansia, scarsa gestione del dolore.
Personalmente le due frasi “preferite” che mi sono state rivolte da medici in risposta alla mia ricerca di spiegazioni al mio dolore sono state:
“è tutta ansia, si metta tranquilla”
“le donne sono fatte per soffrire, si rassegni”.
Che esista un pregiudizio medico nell’attribuire cause psicologiche ai sintomi femminili e cause organiche ai sintomi maschili è cosa nota (e lo dimostra anche questo recente studio condotto dalla Scuola di Medicina di Yale), quello che forse è meno preso in considerazione è l’impatto psicologico che tali affermazioni possono avere su una paziente che soffre senza saperne la causa, specialmente se questo avviene in età adolescenziale.
Non ci si sente credute nella propria sofferenza. Si viene trattate come delle visionarie. Si comincia a dubitare davvero delle proprie sensazioni e percezioni. E quel che è peggio è che anche i famigliari danno ascolto all’autorevolezza dell’opinione medica e smettono di credere (se mai l’hanno fatto) al racconto di dolore e sofferenza delle ragazze e delle donne.
Dopo un tale cammino pieno di ostacoli, quando finalmente arriva la diagnosi finalmente si può dire:
“non era ansia! Non ero io che non gestivo il dolore! Ho una malattia che necessita di cure e forse anche della chirurgia. Il mio dolore è fisico. Il mio dolore è in quei focolai, in quei noduli, in quelle cisti”.
Si finisce per concentrarsi così tanto su questa inequivocabile verità fisica che non si vuole nemmeno pensare che questo corpo è anche una psiche che dovrà affrontare mille ostacoli. E’ vero che la malattia non è nella nostra testa, ma la nostra testa deve poter essere in grado di affrontarla.
Di affrontare il dolore. Di affrontare terapie farmacologiche con tantissimi effetti collaterali. Di affrontare gli interventi chirurgici. Spesso più di uno. Spesso molto invasivi. Forse demolitivi. Di affrontare i cambi di stile di vita. Di poter riprogrammare i propri piani di vita. Di confrontarsi con il tema della maternità e dell’infertilità.
Nessuno viene al mondo attrezzato ad affrontare tutto questo. E nessuno può farcela da solo. Le malattie croniche portano con sé un carico di paure, preoccupazioni, ansie e tristezze, e possono essere legate all’insorgere di disturbi psicologici con componenti ansiose o depressive. E questo è del tutto normale e comprensibile.
Prenderci cura del proprio benessere psicologico non è mai, in nessun caso, segno di debolezza e di inadeguatezza. Al contrario, è parte di un percorso che ci aiuta a sviluppare e potenziare le competenze necessarie per fare fronte alle difficoltà. Essere resilienti non significa fare tutto da soli senza mai chiedere aiuto., bensì implica anche avvalersi di una rete sociale solida e unita sulla quale potersi appoggiare.
Lo possiamo fare in tanti modi: meditando, andando da uno psicologo, o ad incontri di gruppo specifici per la nostra malattia. L’importante è non perdersi per strada un “pezzo” così importante di noi.