Alla cronicità ci si abitua? E’ una domanda la cui risposta probabilmente sarebbe diversa per ognuna dei milione di persona al mondo che ci convivono. Vorrei, però, per quanto possibile, provare a fare un discorso generale.
Ci si adatta? Direi di sì, non è possibile una alternativa. Ci si abitua? Sì, no, forse, probabilmente più no.
Perché per quanto sia clinicamente gestibile, una malattia cronica, più o meno grave, si fa sentire in tanti aspetti: nella rinuncia a certe attività, nella necessità di programmare parecchi dettagli quotidiani, nell’essere quella persona che vorrebbe essere spontanea e avventurosa, ma non può non permettersi di non essere sicura di una serie di particolari prima di dire sì a qualche attività.
E se è difficile imparare a convivere con la cronicità quando si è una persona adulta, non è che se ti accompagna dalla nascita o da quando sei molto piccolə sia più facile.
Sì e no. E’ vero che l’esperienza conta con la cronicità: si imparano e si mettono a punto tutta una serie di strategie per rendersi la vita più semplice. Ciò non restituisce gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza in cui invece di avere come massima preoccupazione quella di copiare a scuola senza farti beccare o imparare a memoria tutti i testi delle tue canzoni preferite, hai dovuto confrontarti con ospedali, esami più o meno invasivi, terapie da assumere con precisione svizzera e magari pure imparare cosa significa “farmaco salva vita”.
Per tornare alla domanda iniziale: ci si abitua? La risposta sta a te.
Nessunə dovrebbe sentire di non poter esprimere le proprie difficoltà, sofferenza rabbia solo perché esiste questa narrazione strisciante che sei hai una malattia cronica devi essere resiliente, perché se sei resiliente stai meglio, e quindi, solo così ti meriti la patente di bravə malatə cronicə.