A breve terrò una lezione ad un gruppo di studenti di una scuola superiore locale sulla tematica dei disturbi e del benessere psicologico. In questi giorni sto preparando il materiale didattico e mi sto interrogando su come cercare di condensare in circa novanta minuti un argomento così complesso, storicamente ricco e ancora oggi tutt’altro che chiaro e definito nel senso comune.
Recentemente, festeggiando i 10 anni di vita dell’Institute of Constructivist Psychology, scuola in cui mi sono specializzata, ad un convegno organizzato per l’occasione, si è discusso di come in Italia da tempo si registri una sorta di scollamento tra ciò che noi psicoterapeuti facciamo (o vorremmo fare) e ciò che le persone che “non sono del mestiere” percepiscono che noi facciamo.
In effetti, tornando agli studenti di prima, quando con una collega abbiamo presentato loro il programma del corso di psicologia che avrebbero seguito con noi, la loro attenzione e curiosità si sono concentrate sugli aspetti “eclatanti”, “scioccanti”, “devianti” che nel loro immaginario noi psicoterapeuti affrontiamo nel nostro lavoro quotidiano. Ma questa cosa non mi stupisce, anche io al primo anno di psicologia ero attirata da questo mondo che mi immaginavo tra un film di Alfred Hitchcock e un quadro di Salvador Dalì. E la stampa e i film non aiutano certo a smentire questa tesi.
Molte volte quando mi trovo a parlare del mio lavoro sento frasi del tipo: “dallo psicologo ci vanno solo i matti”, “io le mie cose me le risolvo da solo”, “ma cosa vuoi andare da uno psicologo per così poco!”. Le tematiche che sento emergere sono prevalentemente legate ad una netta contrapposizione tra disturbo e normalità e il timore di chiedere aiuto per non sembrare deboli/autonomi/lamentosi. Da aggiungersi anche il timore che la psicoterapia duri per tempi lunghissimi e che sia un percorso a senso unico in cui il paziente parla e il terapeuta sta ad ascoltare senza interagire. Inoltre, un altro pregiudizio è che il disagio psicologico colpisca solo certe categorie di persone, mentre invece, parafrasando Indro Montanelli, è una “malattia democratica”.
Parte del problema, siamo anche noi professionisti del settore che nel corso degli anni siamo stati troppo poco chiari su cosa facciamo, perché lo facciamo, come lo facciamo. E su questo punto dobbiamo lavorarci. Sta di fatto che secondo una recente ricerca di della Società Italiana di Psichiatria
gli italiani che soffrono di un qualche tipo di disturbo (ansia, depressione, attacchi di panico) sono circa 17 milioni.
Al di là del numero, la cosa più preoccupante, a mio avviso, è che la stragrande maggioranza di queste persone non cercano/non ricevono alcun tipo di aiuto psicologico. In una dichiarazione del Presidente della SIP Claudio Mencacci, riportata dal Fatto Quotidiano, a questi problemi
“non corrisponde un’offerta di cure adatte, visto che solo l’8-16% incontra professionista, e solo il 2-9% ha un trattamento adeguato, fatto di psicoterapia e farmaci.
Quelli giusti, però. Perché l’altro tema che la questione della sofferenza mentale porta con sé è il grande abuso di psicofarmaci, cui gli italiani fanno sempre più ricorso: benzodiazepine, ansiolitici e ipnotici, ma anche antidepressivi, il cui uso, nell’anno in cui il Prozac compie 25 anni, è quadruplicato in dieci anni, secondo i dati del Rapporto Osservasalute 2012.”
E tutto ciò è assurdo e grottesco, perché “basterebbe” rivolgersi ad un professionista competente e preparato per risolvere il proprio disagio e stare bene. E’ come se tutti noi smettessimo di andare da medici e specialisti e cercassimo di curarci da soli, sperando che il dolore passi senza fare nulla. Da dove cominciare, però, per riavvicinare i professionisti della psicologia agli italiani che dovrebbero esserne fruitori?
Il processo diagnostico è fondamentale per formulare delle ipotesi terapeutiche e verificarle durante i colloqui. Ma spesso e volentieri, quando una persona riceve una diagnosi di disturbo d’ansia, depressivo, ossessivo, finisce per leggersi (ed essere letto da famiglia e amici) solo attraverso queste etichette diagnostiche, diventa cioè nient’altro che quello: un ansioso, un depresso, un ossessivo.
Ma questo snatura completamente lo scopo della diagnosi, che deve essere per sua natura transitiva. La diagnosi deve favorire movimento, cambiamento, riflessione. Serve ad aprire nuove possibilità di elaborazione, non deve bloccare la persona dentro lo stigma del disturbo psicologico.
Il Regno Unito recentemente è diventato uno dei paesi europei più attento alla salute mentale dei suoi cittadini, uno dei pochi paesi al mondo che sta cercando di muoversi concretamente e in maniere innovative per combattere dei numeri che sembrano aver assunto dimensioni epidemiche. Recentemente, il sito Psicologi @ Lavoro ha pubblicato un articolo su un interessante studio britannico sul tema delle psicosi. Cito per intero le parole di Anne Cooke, del Salomons Centre for Applied Psychology, Canterbury Christ Church University, editrice del rapporto, come riportato nell’articolo sopra citato:
“La scoperta che la psicosi può essere compresa nello stesso modo di altri problemi psicologici come l’ansia è uno delle più importante degli ultimi anni, e i servizi devono cambiare di conseguenza. In passato abbiamo visto spesso i farmaci come la forma più importante di trattamento. Ma ora dobbiamo concentrarci su come aiutare ogni persona a dare un senso alle loro esperienze e trovare il modo per dare loro sostegno.”
Il mio sogno è che questa relazione, contribuisca a un cambiamento epocale negli atteggiamenti, per far si che di fronte ai pregiudizi, la paura e la discriminazione, le persone che soffrono di psicosi possano trovare in coloro che li circondano persone in grado di accettare, di mentalità aperta e pronte ad aiutare “.