Settembre è il mese della consapevolezza del dolore e visto che la mia brain fog sembra stare collaborando volevo fare il punto su una situazione che si verifica fin troppo spesso. Alle persone con dolore viene spesso suggerito di rivolgersi ad unə psicologə.
Bellissimo, ottimo, superlativo.
Sappiamo quanto la psicoeducazione, imparare pratiche di meditazione e rilassamento e un lavoro psicologico trauma-informed (per esempio in caso di sindromi dolorose secondarie al PTSD) siano fondamentali per gestire la cronicità, in particolare se con componenti dolorose. Ma il suggerimento poi si chiude lì.
E, tra l’altro, quelle psy sono prestazioni praticamente sempre a carico dellə pazienti.
Purtroppo sappiamo bene che in Italia esistono grossi problemi di carenza di personale sanitario e il 2020 ha messo in luce la vitale necessità dellə anestesistə che, oltre a rendere possibili la stragrande maggioranza delle pratiche mediche contemporanee, si occupano anche delle cure palliative e delle terapie antalgiche (sono le vere rock star della medicina se chiedete a me).
Sappiamo anche che per una serie di fattori socio-culturali in Italia abbiamo grossi problemi nella gestione del dolore, senza contare le eredità misogine, razziste e abiliste che ancora fanno capolino quando in ambito sanitario (e non) si affronta questo discorso.
Il risultato è che le persone spesso non sanno di avere diritto alla terapia antalgica con un conseguente peggioramento sulla loro qualità di vita e, possibilmente, un senso di fallimento personale. Si tratta, invece, di una forma di ingiustizia epistemica.
Magari un giorno svilupperemo il protocollo psicologico AbbassaLaLevaKronk e in 4 veloci sedute saremo in grado di alleviare ogni sintomo di dolore cronico. Nel frattempo, abbiamo diritto anche alla terapia antalgica.