re·si·lièn·za
1. Capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi.
2. In psicologia, la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà.
Mi vengono sempre i brividi quando leggo questa parola, perché è la più usata a sproposito nei social.
Mi urta così tanto quando a questa parola è associata una narrazione semplicistica e tutto-niente, che tante volte ho evitato di usare la parola stessa e magari ho fatto delle perifrasi. Mi sono detta “adesso mi invento una parola nuova e ridicola per dire la stessa cosa”.
Ma poi ho avuto una delle tante illuminanti conversazioni con @sarai_sanguedidrago che mi ha fatto ricordare che dobbiamo riprendere possesso di questa parola, perché la resilienza può salvare delle vite.
E’ facile? No. È complesso, perché essere resilienti non significa aggirarsi per il mondo come Rambo, ma ha a che fare con tantissime abilità sociali come, per esempio, saper chiedere aiuto, riconoscere i propri limiti, anche ammettere che una persona non può essere sempre resiliente, a volte ha bisogno di essere inerte, a volte anche di crollare. Perché siamo essere umani, non androidi (lo so che a qualcuno piacerebbe) a cui si può installare qualsiasi programma e farlo partire a piacimento.
E, quindi, eccoci qui. La resilienza può essere imparata e poi mutare nel tempo, e può apparire diversa in persone diverse. E possiamo essere resilienti e anche arrabbiat*, sconfortat*, depress*, ansios*. Siamo esseri complessi, pieni di contraddizioni.