Da anni ci siamo abituati alla classificazione di film, serie tv e videogiochi per capire se siano “più o meno adatti” alle persone che ne usufruiranno (per esempio le varie classificazioni PG). La stessa cosa avveniva (avviene ancora? Non lo so) con la musica con diciture come “parental advisory” o “explicit content”. Si tratta(va) di forme più o meno esplicite di censura, in cui una commissione decide che tipo di contenuto è adatto a quale età. Il concetto è che sopra i 18 anni è responsabilità nostra. Fine.
Ma con i social media le cose sono diverse. Perché è vero che siamo noi a decidere persone, profili, pagine da seguire, ma non possiamo sapere a priori cosa comparirà sulla nostra bacheca perché ognuno sceglie liberamente cosa pubblicare.
Ecco che è importante, quando si toccano tematiche che possono essere degli inneschi emotivi (emotional trigger) e/o possono fare rivivere a chi legge/interagisce traumi passati, è possibile inserire content warning e trigger warning.
Qualsiasi forma di violenza verso persone o animali. Faccio un esempio: le proteste di Hong Kong sono state trattate poco dalla stampa ufficiale. Internet e i social media sono la speranza per le studentesse e gli studenti di coinvolgere il resto del mondo. Questo implica che vengano diffuse anche le immagini e i video delle violenze della polizia cinese. Ma lo si fa con un content warning iniziale, perché così si dà la scelta alle persone di quanto si vuole vedere. Se io sento che non ho la presenza mentale o uno stato psicologico tale che mi permette di reggere la visione di queste violenze, ho la possibilità di non vederle.
Esercito il mio consenso.
Perché, in fondo, è questo il punto.
I trigger warning e i content warning ci permettono di esercitare la nostra libertà di espressione di parlare dei temi più svariati, anche più scomodi: violenze, salute mentale, discriminazioni verso gruppi marginalizzati, lasciando, però, la massima libertà alla persone con cui condividiamo i nostri pensieri di scegliere fino a che punto arrivare.
Si può non leggere/vedere se anticipiamo che i contenuti potrebbero essere dannosi per il nostro benessere emotivo e psicologico.
Articolando questo post su trigger warning e content warning ho riflettuto molto sui valori del consenso e del rispetto della nostra vita online.
Nel mondo in carne ed ossa, francamente non è che ne vedo tanto di consenso & rispetto, il che non significa che dobbiamo smetterne di parlarne. A maggior ragione, dobbiamo parlarne quando abbiamo a che fare con i social media perché sono fugaci, cambiano velocemente e abbiamo la #responsabilità collettiva ed individuale di renderli luoghi vivibili.
Nelle conversazioni avute, è emerso che molte persone scelgono di lasciare un social se per loro diventa troppo pesante da gestire in termini emotivi e psicologici. E questa è una decisione sacrosanta.
Ma ci sono persone che, per motivi di lavoro o per vari problemi che limitano la loro vita sociale fuori da internet per le quali, abbandonare il proprio profilo può essere una decisione molto difficile.
Ma perché dobbiamo continuare a creare ambienti che sono poco #inclusivi? Perché dobbiamo continuare a rendere difficile la vita di persone che fanno parte di gruppi marginalizzati?
Se una persona è un* attivista sex positive o mette mi piace ai post di una ostetrica perché deve essere praticamente automatico che riceva immagini non richieste di maxibon (per dirla alla dottoressa Schiaffazzi )?
Se accadono fatti terribili nel mondo o voglio parlare di tematiche emotivamente pesanti ho il diritto di farlo, ma chi mi segue ha anche il diritto di poter scegliere se partecipare a quella conversazione o passare oltre se non la sente.
Il minuto che investo nello scrivere un trigger warning o content warning prima di postare, può fare la differenza per la salute mentale di molte persone. E questo si chiama consenso.
Presto mi piacerebbe parlare di consenso anche in ambito sanitario. Intanto mi limito ad invitarci tutt* a usare i social media responsanbilmente #postaresponsabilmente